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Il Paese dei "vabbuo'"

Siamo accomodanti?

“Quante volte al giorno si pronuncia il vabbuo’? Da noi, in varie forme di dialetti e lingue, succede troppo spesso.”

Con questa frase lapidaria, quasi sentenziosa, Erri De Luca chiude un suo intervento dal sapore fragrante, piacevole, a tratti faceto il cui cuore amaro si affaccia sul finale in mezzo alle parole “troppo spesso”, parole che sembrano quasi buttate lì come un sasso in un fiume che scorre inarrestabile e silente, parole quindi destinate ad affondare e ad arenarsi sul fondo delle coscienze. Ma una lettura in chiave di arrendevolezza è da escludersi: lo scrittore partenopeo ben sa che quel tonfo può provocare eco nella grancassa mentale di chi è predisposto ad ascoltare, a riflettere, a confrontarsi, a mettersi in discussione. Lungi da me ogni pretesa di scienza, lo scopo di questo discettare vorrebbe piuttosto essere, per così dire, “mutualistico”, come di un amico che vede l’altro  scagliare il ciottolo e gli si accosta non per competizione o sfoggio di maestria, ma per amplificarne il suono del tonfo con un suo ulteriore lancio.

Vabbuo’ può indicare accomodamento, rinuncia ad interferire, rassegnazione, indifferenza, incredulità, amarezza, convinzione forzata, solidarietà, conciliazione. De Luca disegna, con l’abilità che lo contraddistingue, l’ampio ventaglio di accezioni che tale espressione può assumere corredandolo di esempi immediati, del tipo: “Hai perso il lavoro? Vabbuo’ te ne trovi un altro” “Quel tale non sapeva chi stava pagando la vacanza a lui e a tutta la famiglia? Vabbuo’...” “La nave sta affondando e i passeggeri danno l’assalto alle scialuppe? Vabbuo’...” “Quella è la nipote di Mubarak? Vabbuo’...”. Il minimo comune denominatore dei vari usi che se ne possono fare consiste nel fatto che vabbuo’ affonda le radici nel “buono” e pertanto vuole rappresentare un’affermazione accorta, diversamente dal “bene” che può essere ardimentoso e risultare impegnativo.

A ben pensarci siamo un popolo, per certe cose, fin troppo prudente. Preferiamo non sbilanciarci, non prendere posizione, non calpestare troppi piedi, curare il nostro orticello ed esserne felici finché cresce rigoglioso. Ma anche nel caso in cui si perda tutto il raccolto a causa degli scarichi tossici di una grossa fabbrica sorta poco distante, ci lamentiamo, sbraitiamo, denunciamo il malgoverno alla TV, ma nell’intimità della cabina di voto favoriamo chi ci ha promesso il pezzo di pane più grosso. Santi Romano sosteneva che la rivoluzione è un vero e proprio ordinamento, seppur provvisorio e imperfetto, poiché, anche se gli uomini vengono al mondo e trovano una struttura giuridica che si tramanda da generazioni, le loro esigenze e necessità devono avere un rapporto dinamico con l’ordinamento, cambiandolo, rivoluzionandolo appunto. Diversamente nelle comunità odierne sono gli interessi di pochi che influenzano scelte che si ripercuotono sulla collettività, mentre i “comuni mortali” preferiscono rifugiarsi in un vabbuo’ e illudersi di essere su altri fronti pieni di infinite possibilità o occasioni, andando così a perdere l’essenziale visione di insieme.

Alla lettura di De Luca vorrei osare aggiungere la mia: vabbuo’ oltre a tradurre accondiscendenza o menefreghismo, traduce il grande vuoto del genere umano. Vuoto di convinzioni, di coraggio, di sogni, di speranze vere  e di idee per cui lottare: siamo vuoti di umanità. Per il tramite dell’eutanasia del millantato progresso ci stiamo rendendo al contempo innocenti e carnefici di noi stessi, ma quando a sera ci stendiamo nel letto e il led di ciò che ci rende “connessi” si spegne, restiamo dei vabbuo’ delle nostre stesse esistenze.

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