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La Giustizia

Un'idea tormentata

Giudice, pubblico  ministero e imputato sono gli  attori di un dramma dagli esiti incerti.

Il contesto nel quale  i tre soggetti operano ha molto di imprevedibile e non dà nulla per scontato.

La stessa celebrazione del processo è meramente eventuale e l’accusa non equivale affatto ad affermazione di responsabilità, più banalmente segnando il “punto di avvio” di una procedura che si impone per la ricerca di dati di fatto e di circostanze a sostegno (o a disdegno) dell’accusa.

E’ il momento delle indagini e non il momento  di “far giustizia” di un male cagionato.

Il “far giustizia” è compito del giudice e ciò che si raccoglie nei primi atti di intervento degli organi - polizia giudiziaria e magistrato del pubblico ministero - preposti alle (suddette) indagini  non può dar luogo ad alcun giudizio, giusto o ingiusto che sia.

Anch’egli magistrato, ma, con funzioni diverse e distanti da quelle devolute al pubblico ministero, il giudice resta fuori da ogni indagine, vaglia consistenza e attendibilità dei dati raccolti in sede di indagini, decide se un processo possa celebrarsi.

Due organi : il pubblico ministero, che indaga, e il giudice, che giudica sulla “accusa” che il primo ritiene di poter ascrivere alla persona nei cui confronti ha indagato.  E due “ fasi”: quella delle indagini, inevitabile e certa, e la fase del giudizio, solo eventuale. La prima, obbligata; la seconda possibile.

I termini pubblico ministero e giudice non sono, dunque, sovrapponibili, perché diverse sono le funzioni dell’uno ( l’ indagare) dell’altro ( il giudicare).

Non sovrapponibili, ugualmente, le indagini e il giudizio, perché funzionali, le une, alla formulazione dell’accusa e alla attivazione del processo, l’altro alla pronuncia di una decisione.

Passi cauti, passaggi lenti e ben cadenzati, distanti le funzioni, distinte le valutazioni.

Tempo perso, formalismi inutili?

O non piuttosto cautele obbligate?

Propendo per questa seconda tesi, convinta che il processo che si celebra a carico di taluno, in vista dell’accertamento della illegalità  della sua condotta, è di per sé solo già una “ pena”. Il “giudicare implica  un punire” - si è detto - e lo dimostra  la ovvia constatazione  che il “semplice sospetto” è (sia pure in linea di sola probabilità o possibilità) già  un “giudizio affermativo del reato  che provoca sofferenza”.

 Lo dimostra anche - e ancor più pervicacemente – il giustizialismo bieco che, quotidianamente, ciascuno di noi, impunemente, pratica.

Chiediamo giustizia ed esigiamo condanne in nome di una insicurezza che ci assale e che vogliano combattere in prima persona, pur non avendo né mezzi né capacità.

Ci appropriamo del processo, come protagonisti primari, perché vogliamo “giustizia”, ignari del fatto che anche processo e giustizia sono termini (concetti) non sovrapponibili.

Il processo si “fa presente” (materializzandosi, nella sua “oggettività”, come meccanismo che viene attivato da una giudice che accolga la relativa richiesta del magistrato del pubblico ministero); la giustizia  non si materializza mai.

In quanto categoria che appartiene al “mondo delle idee”, la giustizia è deprivata di “oggettività”  e, in quel mondo astratto, resta relegata.

Trattasi, in più, di “ idea tormentata” : dalle implicazioni che ciascuno pretende per il “giusto” o che attribuisce all’ ingiusto”; dai dubbi di incomprensione dei fatti; dalla cattiva ricostruzione degli eventi; da sospetti di falsità o di connivenze; dalla confusione tra ciò che afferisce al diritto e ciò che attiene alla morale.

Una differenza, questa, che ha dato luogo a dibattiti impegnati e complessi e che qualcuno ha  definito il “ Capo Horn”. Il “Capo delle tempeste della scienza giuridica”!

E dunque?

E dunque: teniamoci lontani da un compito che non ci appartiene e lasciamo che il giudizio sia pronunciato da un giudice nelle forme e con le garanzie del processo e solo alla luce di un “fatto accertato e provato” al di là di ogni ragionevole dubbio.

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