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Della eutanasia

Eutanasia: dal greco “buona morte” è quella forma di morte non naturale, ma provocata in genere da farmaci e da qualsiasi altro mezzo ritenuto idoneo e non doloroso, per mettere fine a una lunga agonia e a sofferenze ritenute inumane.

Eutanasia: dal greco “buona morte” è quella forma di morte non naturale, ma provocata in genere da farmaci e da qualsiasi altro mezzo ritenuto idoneo e non doloroso, per mettere fine a una lunga agonia e a sofferenze ritenute inumane. E’ questo un problema molto arduo e di difficile soluzione per le sue implicazioni di ordine morale,sociale, religioso e giuridico. Tutti ci auguriamo che il momento del trapasso da questa vita all’altra vita avvenga in modo dolce, sereno, senza sofferenze, senza dolore.

C’è chi spera di morire nel sonno: “ Mi addormento e non mi sveglio più”. Chi spera di morire di morte improvvisa, cioè senza nemmeno rendersene conto. C’è invece chi la morte la vuol vedere negli occhi senza paura, senza il terrore immotivato delle cose sconosciute, misteriose, ignote. Ed è questi l’uomo forte, l’uomo giusto, chi ha vissuto la propria vita secondo il dettame della sua coscienza, libero da pregiudizi, con dignità e onore nel rispetto della legge, della morale e della libertà degli altri. L’uomo nasce senza sapere perché e da dove viene, quale è la sua funzione, la sua missione su questa terra. Lo scopo, il fine ultimo della sua vita quale è. L’uomo muore perché appartiene a questo mondo in cui ogni cosa ha un principio e una fine. Ma cos’è la morte?

La morte è il completamento della vita, il fine ultimo della vita in senso escatologico, è il momento del trapasso dal tempo nell’eternità. La morte questo tabù, questo enorme mistero che noi cerchiamo in tutti i modi di esorcizzare e di tenere quasi nascosto a noi stessi e non pensarci nella vita quotidiana, nella vita convulsa di tutti i giorni è purtroppo sempre presente, perché si muore tutti i giorni, a tutte le ore, in qualsiasi parte del mondo. Già nella civiltà greca in cui affondano le nostre radici culturali ed esistenziali è presente nella sua mitologia la figura di Caronte l’infernale nocchiero che con la sua barca traghettava le anime dei morti nell’Acheronte all’altra sponda. Quindi gli antichi greci credevano in una vita dopo la morte, come pure quasi tutte le religioni primitive e preistoriche. Anche io cristiano e cattolico vi credo per fede e vi spero ardentemente come figlio del nostro tempo.

La morte infine la dobbiamo intendere come il momento del passaggio, sia in una continuazione della vita come spiriti incorruttibili in un mondo soprannaturale: il Paradiso, e nella contemplazione di una Entità spirituale infinita e immortale: Dio; sia che si precipita nel nulla, nell’annullamento della nostra personalità, del nostro io, nella fine assoluta a seconda delle credenze e delle concezioni filosofiche. Nell’uno e nell’altro caso questo mistero che è la morte non ci dovrebbe far paura e dovrebbe essere vissuto e affrontato come un evento del tutto naturale e ineluttabile, come di un qualcosa che ci appartiene e fa parte intrinseca di noi fin dalla nascita, perché è fin dalla nascita che la morte ci accompagna, e sta sempre al nostro fianco. Purtroppo si muore a tutte le ore e in tanti modi e non sempre nel momento sperato e come noi vorremmo. A volte la morte mette a dura prova anche gli animi più forti e risoluti.

A volte il tempo del trapasso diventa troppo lungo e doloroso, tra sofferenze inaudite, in un’agonia che sembra senza fine, ed è qui che comincia a vacillare ogni difesa, ogni resistenza, ogni convinzione. Subentra il dubbio, la rivolta, perché? Comincia a venir meno anche la fede per chi ce l’ha, e per chi non ce l’ha, per chi non crede, per l’ateo e il materialista non ha più senso questo dolore, questo tormento, questo inutile soffrire. Allora perché non spegnere con un soffio la candela, perché non fare questa opera di misericordia e mettere fine alle sofferenze. Perché non interrompere gli spasimi di un corpo divenuto solo un ammasso di membra, di ossa, di carne in sussulto, in continuo lamento, di in corpo senza spirito, senza anima quasi fosse un tronco di albero. Ma quel corpo ormai alla fine del suo viaggio su questa terra, un giorno è stato forte e vigoroso, pieno di vita, di speranze, di ideali.

E’ stato giovane e forse anche bello, allegro, spiritoso, pieno di sogni e di certezze, di orgoglio e di amor proprio. Non può abdicare alla fine al suo essere, alla sua natura, alla sua dignità. L’uomo in quanto tale è l’immagine di Dio, e questo resta comunque una mia convinzione, e come tale deve conservare il suo coraggio fino alla fine senza entrare nello sgomento, nell’angoscia, nella disperazione. Il vero uomo deve saper vivere e deve anche saper morire. E quando certe malattie rendono la mente insana o si piomba nella incoscienza, nella cosiddetta vita vegetativa senza il lume della ragione, allora sorge un’altra questione etica e morale la cui soluzione non può essere devoluta alla organizzazione sociale e allo stato, ma resta un problema ristretto alla famiglia, al medico curante e alla coscienza dei diretti interessati e va risolto volta per volta, caso per caso. Io ricordo che nella mia attività di medico di famiglia ho incontrato tante situazioni complicate e dolorose, momenti in cui intere famiglie vivevano nella paura, nell’angoscia dell’evento inevitabile.

Tante volte quando ormai la malattia arrivava a un punto di non ritorno e non c’era nessuna possibilità di guarigione, quando anche il malato avvertiva la fine, quanti di essi anche senza parole accettavano serenamente il responso. Si costituiva tra il medico e l’ammalato un clima di comprensione, quasi una mutua complicità sicchè il medico non diceva e l’ammalato faceva finta di non sapere, e non si continuava con cure mediche ormai inutili e assurde, con il cosiddetto accanimento terapeutico, così tanto messo sotto accusa e che poi nella realtà non credo che veramente esiste. Ma si accompagnava dolcemente con il concorso dei familiari, con la presenza costante, con l’assistenza amorevole l’ammalato verso l’epilogo della sua vita. Perché purtroppo la morte è un traguardo ineluttabile per tutti gli uomini.

In questo comportamento di grande umanità si esplicava tutta la pietas filiale e familiare sicchè esso diventava veramente l’ultimo atto d’amore verso l’ammalato. Non se ne può fare una regola generale, né tanto meno una legge di stato. Perché in questo caso diventerebbe una condanna a morte selettiva, cioè solo per una determinata categoria di ammalati. E chi lo stabilirebbe un gruppo di persone senza alcuna remora di ordine morale, la cui umanità e sensibilità è arrivata perfino a considerare l’omicidio. In tal modo purtroppo sarebbe ripristinata la pena di morte sia pure per una determinata categoria di persone che non ha commesso nessun delitto, ma è solo stata più sfortunata e messa a così dura prova dalla sorte. Comunque la legge prevede, come ricordo anche dai miei studi universitari di medicina legale, l’omicidio del consenziente, art. 579 c.p. tuttora in vigore. Poi questo sarebbe un grave precedente ed aprirebbe la strada a tutta una serie di situazioni discutibili e dolorose. Infatti come sempre in genere avviene in tutte le cosiddette conquiste laiche e sociali, che il più delle volte sono dovute a un rilasciamento dei costumi, oltre al mutamento delle sensibilità nel tempo e a seconda delle epoche, si continuerebbe con altre categorie di ammalati altrettanto sfortunati la cui sopravvivenza, contrabbandata con una inutile e inumana sofferenza, andrebbe messa in discussione.

Che dire allora di quei tanti bimbi nelle carrozzine affetti dalle più strane e gravi patologie nervose, che non capiscono, non parlano, si agitano a tratti furiosamente senza un perché, che urlano, piangono, si rivoltano e si ribellano all’improvviso mettendo veramente a dura prova tutta la pazienza, la forza, il coraggio e l’amore dei familiari. Che dire di quei malati mentali incapaci di intendere e di volere, non autonomi e autosufficienti, che si urinano addosso, si mangiano le feci e debbono essere accuditi e sorvegliati senza sosta. Che dire di quei malati allettati che hanno perduto ormai la ragione, che non riconoscono nemmeno più i loro figli, con enormi piaghe da decubito, che hanno bisogno di continua assistenza e cure mediche diventando spesso un peso enorme per la famiglia e la società. Che cosa faremo quando i costumi e la sensibilità individuale e collettiva avrà fatto ancora un passo avanti verso il materialismo e il nichilismo?

Ecco perché, secondo me, l’eutanasia è un problema che non si pone, che non si può proporre. Nessuna legge può stabilire a priori quando staccare la spina e per chi. Questa è una mostruosità, un’aberrazione di chi non crede in niente. E poi questa spina chi la dovrebbe staccare : il medico, uno che all’inizio della sua professione ha giurato solennemente (Giuramento di Ippocrate) di difendere la vita. Già Ippocrate nel IV secolo a.C. fece questa solenne promessa:

  • Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò di recar danno e offesa.
  • Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio.
  • Similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.

Perciò coloro che avessero in mente delle idee aberranti e pazzesche di mettere in discussione dopo l’aborto, l’utero in affitto e altre forzature del genere, anche l’eutanasia farebbero bene fin d’ora a considerare la figura del boia, perché l’eutanasia non sarebbe altro che una condanna a morte, un delitto di stato.

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