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Con il Vesuvio sotto i piedi - Cap. X - Prima parte

Le avventure di una archeologa vissuta negli scavi di Pompei

Marisa de Spagnolis è una illustre archeologa, già funzionaria del Ministero per i Beni e le Attività culturali, autrice di oltre cento  pubblicazioni relative alla sua attività svolta in Campania e nel Lazio.
Per le sue eccezionali scoperte Marisa de Spagnolis è stata invitata a tenere conferenze in Italia, Israele, Grecia, Stati Uniti. 

Nel 1987 si è trasferita a Pompei ed ha iniziato a lavorare presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, con l’incarico di direttore degli Uffici Scavi di Nocera e Sarno. 

Nel territorio nocerino, sarnese e scafatese porta alla luce numerosissime testimonianze archeologiche tra cui: 

  • 540 tombe protostoriche della Valle del Sarno; 
  • tombe dal V a.C. al V d.C. a Nocera Superiore; 
  • iscrizioni ebraiche che documentano l’esistenza di una sinagoga; 
  • la monumentale necropoli romana del I secolo a.C. in località Pizzone a Nocera Superiore; 
  • l’area archeologica di piazza del Corso a Nocera Inferiore. 

A Scafati ha portato alla luce numerose ville, seppellite dalla eruzione del Vesuvio del 79 d.C., alcune delle quali esplorate: Villa Popidi Narcissi Maioris, Villa Vesuvio, Villa Cascone Sorrentino e monumenti funerari tra i quali il monumento della Gens Decia e il sepolcro della più importante famiglia pompeiana al tempo di Nerone: i Lucrezi Valenti.  Quasi tutti gli scavi effettuati sono stati oggetto di pubblicazioni scientifiche. 

Nel  1997, rientrata a Roma,   le viene affidata la responsabilità di parte della provincia di Roma e di parte della provincia di Latina, dove ha datato le mura e la Porta Maggiore di Norba e scoperto il santuario di Ercole a Itri. Dal 2010 al 2012 ha diretto uno dei più importanti musei  nazionali italiani il Museo archeologico Nazionale di Sperlonga dove ha realizzato numerosissimi eventi e mostre e dove ha effettuato, nell’estate del 2012,  l’eccezionale scoperta delle testimonianze dell’uomo di Neanderthal.  Nel 2014 svela con il libro Mefitis e il Lucus Iunonis  il mistero dell’ identità della dea delle sorgenti del Sarno.

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La nostra gratitudine per averci consentito questa pubblicazione.

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VILLA VESUVIO E IL MESSAGGIO D’AMORE

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Erano in corso dei lavori per la costruzione di una moderna strada, la s.s. 268 detta del Vesuvio, perché utilizzabile come via di fuga nel caso di eruzione. Non c’è generazione di napoletano che non abbia visto un’eruzione del terribile vulcano - si dice in Campania. L’ultima risale al 1944. Se ne teme una nuova a breve.  I piloni di sostegno della strada erano già stati realizzati, quando ci rendemmo conto che essi avevano intaccato una struttura romana, già seppellita dal Vesuvio. L’area, infatti, si presentava occupata da una serie di palificazioni di cemento che emergevano dal terreno a mo’ di colonne. Iniziammo l’esplorazione augurandoci che i lavori eseguiti non avessero procurato danni. Fortunatamente, come ci rendemmo conto in seguito, essi avevano interessato solo la corte della struttura romana che ci apprestavamo a riportare alla luce.  Villa Vesuvio rivelò essere una piccola fattoria agricola, perfettamente conservata, sigillata dalla eruzione del 79 d.C. e aveva dimensioni più ridotte rispetto a quella di Popidio Narcisso. L’ubicazione della villa in una zona di pianura comportava il solito problema della falda acquifera che si alzava d’inverno e si abbassava d’estate. Lo scavo, conseguentemente, non poteva essere effettuato d’inverno.  In primavera demmo inizio alle esplorazioni nel corso delle quali ebbi modo di osservare da vicino il comportamento dei rospi da cui eravamo letteralmente circondati. Nella mia ignoranza del mondo animale avevo sempre ritenuto che la rana fosse la femmina del rospo; appresi che così non era.  La femmina del rospo si presentava di proporzioni di gran lunga maggiori del maschio che richiamava emettendo, ad intervalli, profondi gracidii. Il maschio le si avvicinava lentamente, guadagnando terreno fino a raggiungerla. Nel momento dell’accoppiamento la femmina produceva lunghissimi filamenti di uova che il maschio fecondava comodamente appoggiato su di essa. Eravamo invasi da un numero incredibile di filamenti di uova, da migliaia di girini che divenivano piccoli rospetti saltellanti che cercavano di sfuggire alle lucertole predatrici che confluivano numerose. Una di queste aveva due code.  La fotografammo. Si dice porti fortuna. A Villa Vesuvio non riuscivo a decifrare un graffito, inciso con segno leggero, forse di un piccolo legno, sulla malta di un ambiente, sottostante all’ intonaco. Mi incuriosiva sottrarre al passato un messaggio destinato a non essere mai colto perché nascosto da intonaco. Quale poteva essere il suo contenuto, scritto per non essere letto da alcuno? Con l’amico Antonio Varone avevamo tentato più volte di catturarne il segreto - quasi certamente d’amore - ma inutilmente! Infine Antonio decise di fare un ultimo tentativo per esaminare il graffito al buio, alla sola luce della torcia. Decidemmo, pertanto, di recarci di notte nella villa e di condurre con noi anche i figli.  La piccola comitiva era composta da Antonio con il figlioletto Vincenzo, Manfredonia, io e mia figlia Maria. Sembravamo dei tombaroli intenti, nottetempo, a compiere un furto. Ed in effetti quella notte noi volevamo rubare qualcosa al passato: un messaggio d’amore occultato perfino al destinatario.  La luce della luna rischiarava una notte limpida e si stendeva su forme indistinte. Il lapillo bianco, accumulato dallo scavo, rifletteva la morbida luce e dava quasi l’immagine di colline innevate. Le nostre ombre si proiettavano, inquiete, sulle pareti; si formavano e si dissolvevano.  Mentre i ragazzi apparivano eccitati da quella avventura, noi tre, seduti sui cumuli di lapillo, tentavamo, disponendo la torcia in tutte le possibili posizioni, di ottenere quell’effetto di luce radente ottimale per una più chiara lettura del graffito.  Antonio, calmissimo, era sicuro di riuscirci. Mentre da una parte tenevo d’occhio i ragazzi quasi estranei alla nostra impresa, dall’altra apprezzavo la tranquillità del mio collega deciso a non andar via di lì senza aver raggiunto lo scopo. Eravamo assai certi che si trattasse di una scritta d’amore. Compariva infatti un monogramma,  già noto perché rinvenuto altrove, recante una M con due trattini orizzontali leganti le aste  laterali a quelli centrali, così che poteva sciogliersi nella parola AMA. Trascorse molto tempo per poter decifrare completamente e correttamente ogni lettera.  Infine  la  nostra  costanza  fu  premiata.  Il  graffito  diceva:  Scito:  ama  et  aude millia = Sappi (tienilo bene a mente), ama ed osa mille volte. Il messaggio d’amore, finalmente decifrato, continuava però ad essere enigmatico. Era senza dubbio una persona innamorata ad averlo inciso. Ma a chi si riferiva, a chi era diretto quel messaggio posto sotto un intonaco, che avrebbe comunque impedito a chiunque di leggerne il contenuto? L’invito ad amare ed osare non poteva non essere rivolto che a sé stesso, al misterioso autore di quella frase. Non sappiamo se egli abbia dato seguito ai suoi propositi ma, senza dubbio, la sua passione ci ha regalato una delle più belle frasi d’amore a noi pervenute da quel territorio.  

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Nel prossimo numero: Nocera, la tomba del calzolaio 

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