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Con il Vesuvio sotto i piedi - Cap. III - Seconda parte

La Valle del Sarno

Con il Vesuvio sotto i piedi è un libro scaricabile da Amazon, in formato kindle, al prezzo di € 1,88.
Ringraziamo l’Autrice, Archeologa di fama,  per averci consentito questa pubblicazione.

Nell’area archeologica, una piccola casetta ospitava il personale dell’Ufficio Scavi, che mi attendeva incuriosito. Seduto in una siepe di bosso da lui stesso appositamente sagomata a mo’ di sedile, era Isernia, un addetto ai servizi di vigilanza; sfumacchiava con una pipa di sua creazione. Nell’ufficio, appoggiato alla finestra, l’assistente Michele Manfredonia mi guardava e mi valutava. Di media statura, magro, faccia leale e bruciata dal sole, sulla quale il tempo aveva disegnato le rughe, dava apparentemente l’idea di una persona tranquilla. Solo lo sguardo attento, che sembrava cogliere anche quello che era al di fuori del suo raggio d’azione, rivelava una intelligenza non comune.  Mi parlò delle necropoli della valle del Sarno con una passione tale che fui cosciente di procurargli una delusione profonda quando gli precisai che mi occupavo principalmente di archeologia greco-romana. L’amore per la sua terra era evidentissimo! Ignoravo in quel momento che era anche un uomo molto volitivo che non si arrendeva davanti agli ostacoli. Mi disse, alludendo al romanzo di Buzzati, Il deserto dei tartari, che lavorava da tredici anni in quel luogo con lo stesso animo del soldatino che guardava l’orizzonte aspettando qualcosa che cambiasse la sua storia e quella del suo territorio. Si augurava che fossi io a cambiarla.  Il documentarista Giuseppe Lanzara, uomo tranquillo, carattere schivo al limite della timidezza, mi accolse con la cortesia ed il rispetto che si deve ad un superiore di grado. Il restauratore Alfonso Sparano mi mostrò il suo tavolo di lavoro dove i vasi rinvenuti in frammenti nelle necropoli ricominciavano a riprendere forma. Voleva che fossero gli oggetti a parlare per lui!  Mi recai a visitare i depositi archeologici. Erano collocati in vasti ambienti terranei del Convento del Santuario di Foce- Sarno. La scarsa illuminazione non mi permise di vedere immediatamente ciò che mi circondava. Il quantitativo di reperti archeologici, disposto su scaffalature altissime, ed in gran parte ancora da restaurare, era impressionante. Ci sarebbero voluti anni ed anni di lavoro! Ebbi così il primo sconvolgente contatto con il materiale protostorico della Valle del Sarno relativo a circa ottocento tombe comprese cronologicamente tra la metà del IX e la metà del VI secolo a.C.  Quando, al termine del mio mandato, lasciai la valle, le tombe scavate avevano raggiunto il numero di circa 1500.  

Avevo avuto un primo approccio delle persone con cui lavorare ed una iniziale conoscenza delle aree archeologiche di cui mi sarei dovuta occupare. Mi furono prospettati anche tutti gli ostacoli che avrei incontrato nel controllo del territorio dove la camorra faceva sentire la sua presenza. Un panorama variegato di pericoli. L’Agro nocerino-sarnese, mi dissero, è la terra dell’oro rosso, del pomodoro San Marzano, lavorato in decine di fabbriche. È una terra non abituata a convivere con l’archeologia, una terra cui non serve il turismo: le basta l’oro rosso!  Ebbi la sensazione di essere stata proiettata in una situazione incomprensibile e difficile da gestire. A Roma avevo svolto la mia professione in una realtà archeologica di grande tranquillità. Avvertii traumaticamente che quelle, invece, non erano zone dove si poteva scegliere di fare archeologia a tavolino senza rischi e complicazioni.  Mi resi conto che se volevo ottenere qualche risultato dovevo fare una precisa scelta di campo e di vita. Decisi di impegnarmi, come sempre alla mia maniera, non sottovalutando i rischi, ma pronta, comunque, ad affrontarli. Ero in prima linea ed intendevo restarci.  Gli addetti ai servizi di vigilanza, sia a Sarno che a Nocera, erano numericamente nella media nazionale della categoria. C’erano tranquilli padri di famiglia che svolgevano, pur con qualche difficoltà, il loro dovere; tra i molti, di giovane età, alcuni scalpitavano per l’insoddisfazione e la noia, altri manifestavano, con livore ed astio, le profonde frustrazioni. Una realtà umana caratterizzata da divergenze di caratteri, ambizioni latenti, diversa capacità di comprendere il mondo degli altri. Alcuni di loro nascondevano una energia potenziale, pronta a manifestarsi, se opportunamente sollecitata.  Il territorio di cui dovevo occuparmi era molto vasto e iniziava da Scafati, comune a soli due chilometri da Pompei ed in antico parte territoriale della celebre città, per arrivare al confine con Salerno. Mi ritenevo una specialista in topografia antica ed avevo l’orgoglio di sapere come localizzare eventuali testimonianze archeologiche, ma in quell’area il mio compito appariva difficilissimo. Non capivo come avrei potuto cercare le case sotto le case, i campi sotto i campi, il fiume sotto il fiume! L’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., improvvisa e apocalittica, aveva oscurato il cielo: una nube densa si era abbattuta sul territorio depositando a strati pomici leggere, una cascata di lapilli, una pioggia intermittente di materiali vulcanici che aveva ricoperto ogni cosa modificando il paesaggio e sigillando, come in un enorme contenitore, cose e uomini  sorpresi nell’attimo di svolgere la propria attività o in fuga verso un’ipotetica salvezza. Le pomici si erano depositate sui tetti delle case, facendoli crollare e rendendo difficoltosa la fuga agli abitanti disorientati.

La cenere impalpabile, seguita alle pomici, aveva completato la catastrofe, soffocando gli esseri viventi. Il paesaggio era radicalmente mutato. Ogni costruzione era diventata tomba di se stessa. Il lento trascorrere del tempo aveva reso irriconoscibile i siti interessati, distruggendo tutti i segnali di riferimento. Di Pompei e delle città contigue, si ricordavano solo i nomi e la tragedia.  Lo strato di lapilli e cenere a Scafati si aggirava in media sui tre metri e mezzo, per poi scendere progressivamente a cinquanta centimetri a Nocera. Nessun segnale di presenze archeologiche, pensavo, avrebbe potuto leggersi in superficie. Mi sbagliavo!  Ben presto effettuai un primo sopralluogo nel territorio seppellito dall’eruzione pliniana di Scafati con Antonio Ferrante Cavallaro, appassionato cultore delle antichità del proprio paese. Nel corso dell’ispezione egli mi indicava siti e mi parlava di ritrovamenti risalenti alla fine dell’800 e agli inizi del 900. Cercavo di farmi delle idee sulla consistenza archeologica di un territorio ancora sconosciuto e mi ponevo il problema di come procedere per trovare ciò che non era visibile in superficie.  Quasi alla fine della passeggiata notai, in un cantiere, un operaio che con il mezzo meccanico effettuava uno sbancamento e recuperava il lapillo dell’eruzione del 79 d.C. che, utilizzato nell’edilizia, è molto ricercato e costoso. Scesi per curiosità nell’area sbancata per esaminare la sezione del terreno. 
Tra i lapilli, scorsi un pezzo di tegola romana. Il frammento non poteva né esservi stato portato né, ovviamente, essere stato eruttato dal Vesuvio.
Era il segnale della presenza di qualcosa di antico esistente nei pressi.  Lo scavatorista, da me interrogato, giurava di non aver visto alcuna struttura antica. 
Mi avvicinai alla parete sezionata. Toccai i lapilli, queste piccole pomici leggerissime, chiare, porose, ruvide al tatto, che lasciano nelle mani una leggera polvere bianca. La parete di lapillo apparentemente compatta alla vista, cominciò a franare lentamente e mentre scivolava lasciava a nudo un muro antico, rivestito di intonaco bianco, perfettamente conservato, probabilmente relativo ad una costruzione rustica.  Esultavo! Avevo effettuato il mio primo rinvenimento nel territorio vesuviano. Era una  sensazione  magnifica  che  scatenò  una  vera  e  propria  tempesta  interiore.  Mi sembrava quasi impossibile che avessi, così presto, assistito a scoperte di strutture pre-eruzione del 79 d.C. La ritenevo una sorte concessa a pochi e cominciai subito a rendermi conto di essere di fronte ad un terreno vergine, una pagina bianca su cui scrivere una storia inedita, un luogo da indagare per la ricostruzione di un mondo costruito dagli uomini di un lontano passato, fatto di silenzi e segreti.  Folate di pensieri investivano la mia mente e creavano un vortice. Quale stratagemma adoperare per procedere alla tutela del territorio? Decisi che avrei controllato tutti i cantieri di scavo per costruzioni ed avrei messo su un sistema di informatori che mi avrebbero avvertito di tutti i lavori di sbancamento in corso, essendo le aree non soggette a vincoli archeologici. Non sottovalutavo il rischio in cui io ed i miei collaboratori saremmo incorsi. Ci sarebbe stata, certamente, una reazione alla pressione che avremmo esercitato. Per troppi anni il territorio scafatese era stato terra di nessuno e su di esso si erano commessi i peggiori crimini edilizi a spese dell’archeologia.  Alla gioia del rinvenimento si unì contemporaneamente l’interesse verso quel tipo di interro, così particolare, causato dal Vesuvio. Il lapillo, questo leggero materiale eruttato  dal  vulcano,  fu  per  me  una  sorprendente  scoperta.  Imparai  pian  piano  a conoscerlo, a catturare in esso le tracce invisibili di oggetti distrutti, soprattutto lignei, a comprendere la dinamica dell’interro. Cominciai a distinguere i vari tipi di lapilli. Quello preistorico, pesante e poco poroso, si presentava di colore giallino; quello del 79 d.C., bianco sporco e grigio, era più leggero; quello dell’eruzione del V secolo d.C. più scuro e pesante; quello più recente, infine, dovuto alla eruzione del 1944, mostrava un colore azzurrino. 

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