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La s q uola a so cq uadro

Ovvero la scuola "democratica"

Sostenere che il sistema giudiziario italiano non funziona, a volte significa fare di tutta l’erba un fascio. 

Ci sono, infatti, apprezzabili eccezioni che fanno rifiorire la speranza e a chi potrebbe rispondere che “l’eccezione conferma la regola”, è bene ricordare che filologi francesi di avanguardia hanno avuto modo di ribadire che piuttosto è l’eccezione dell’eccezione a confermare la regola. La nostra eccezione alla regola è un sentenza del giudice del lavoro di Lecce che recentemente ha annullato un provvedimento disciplinare di sospensione abbattutosi su un professore di un istituto tecnico pugliese. Il motivo del provvedimento lascia perplessi e apre un portale di interrogativi su quella che sembra essere una dimensione parallela delle dinamiche scolastiche odierne. Il professore, infatti, è risultato colpevole di aver assegnato agli studenti i voti che meritavano. Avete letto bene, non vi è alcun errore di battitura, nessuna omissione di avverbi di negazione. Lo stesso professore ha poi rincarato la dose affermando, senza pudore, che “Se tutti gli studenti avessero i voti che meritano, non verrebbe promosso più del 20 percento”. Basta osservare le nostre piccole realtà quotidiane per comprovare che la percentuale di promozione negli istituti italiani è ben lontana dall’essere così bassa. Anzi, chi inizia il corso di studi è quasi sicuro che otterrà il diploma, nei tempi, superando un esame che certifica da anni quasi il cento per cento delle promozioni. Ma allora, cosa accade nelle nostre scuole? Verrebbe da insinuare che qualsiasi criterio di selezione è stato cestinato per essere sostituito da metodi che, lungi dal fondarsi sulla meritocrazia, affondano le radici in vere e proprie strategie di marketing. La scuola, come qualsiasi impresa che voglia essere competitiva, deve infatti sbaragliare la concorrenza in un’ottica non solo di assegnazione di fondi e risorse, ma anche di carriera, del dirigente e degli insegnanti, e di autonomia: un istituto con un considerevole vuoto di iscrizioni, correrebbe fortemente il rischio di finire nell’inferno dantesco degli istituti comprensivi. Sembra quindi essersi radicata l’idea e la pratica che, invece di ponderare l’effettivo grado di apprendimento o le concrete capacità dello studente, si debba essere disposti e disponibili a compromessi, a voti politici, pur di non lasciare nessuno indietro. Ci si dimentica di considerare, tuttavia, quello che è il ruolo primario dell’istruzione: formare, plasmare i ragazzi di oggi negli adulti di domani: capaci, pronti al mondo del lavoro, competenti, volenterosi, coscienziosi e consapevoli delle loro potenzialità. D’altro canto è anche vero che parlare di formazione non vuol dire solo impartire conoscenze, ma non significa neppure esclusivamente ostinarsi ad appianare le differenze, in un’ottica sociale di parità e uguaglianza, senza tener conto che sono questi stessi valori a chiedere di svolgere l’attività scolastica per mezzo di serie e attendibili valutazioni delle competenze dello studente al di là del nome, della provenienza, della classe sociale e di qualsiasi altro fattore ambientale. In medio stat virtus, dicevano gli antichi e non per diletto. L’adozione di criteri frutto di una giusta sintesi, è auspicabile.  Molti sostengono, inoltre, che fonte di squilibrio sia anche l’eccessiva tendenza a quello che viene definito universalismo della scuola, cioè la sempre più frequente tendenza della stessa a proiettarsi al di fuori del proprio ambito, verso attività ed iniziative di natura profondamente diversa da quella didattica, anche qui a scopo propagandistico, che ne causano uno scombussolamento di rotta, verso dimensioni  più ludico-ricreative che di studio. Eppure, sembra che buona parte delle famiglie, quando deve determinarsi nella scelta dell’istituto che accoglierà i loro figli, preferisce quello che mantiene alto il livello di iscritti o che propone programmi variegati di attività extra-scolastiche.  

Ma una scuola così strutturata a cosa serve realmente? Certo, potrà essere definita scuola democratica, ma finirà sempre per sfornare studenti allenati ad accontentarsi della sufficienza. Vittime di un sistema oramai autoreferenziale, incurante di quali siano le conseguenze che si ripercuotono su giovani nel fiore della loro formazione, questi stessi giovani andranno a formare la futura classe dirigente del nostro Paese: professionisti, impiegati, dirigenti... Persone, intese come cuore pulsante di una comunità, avvezze alla mediocrità.

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